8 febbraio 2017 - 18:54

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In occasione della Giornata della memoria gli studenti della 1aN hanno visto il film-documentario di Mimmo Calopresti "Volevo solo vivere", girato nel 2006 e prodotto dalla Shoah Foundation Institute for Visual History and Education di Steven Spielberg. Il film raccoglie le testimonianze di ebrei italiani imprigionati nei campi di concentramento che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno fatto ritorno a casa: Nedo Fiano, Shlomo Venezia, Liliana Segre, Settimia Spizzichino, Arminio Wachsberger, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Andra Bucci, Esterina Calò Di Veroli e Luciana Nissim Momigliano.

In questa pagina sono raccolte alcune loro riflessioni e delle scene del film disponibili su YouTube.

 

Una signora poco più che tredicenne racconta la "selezione" dei deportati nei campi di concentramento da parte degli ufficiali delle Ss. I deportati, dopo un lungo appello che a volte durava anche più di mezza giornata, si mettevano in fila indiana e venivano giudicati se idonei a lavorare ancora nei campi e nelle fabbriche o se essere uccisi nelle camere a gas perché tropppo deboli per sopportare altre fatiche.

La vita o la morte di ogni singola persona veniva decretata come un'azione normale, semplicemente con un cenno della testa, un'azione meccanica.

 

All'arrivo degli alleati, tutte le persone, anche se non avevano più forze, pur di uscire da quel cancello, utilizzavano le ultime energie per allontanarsi dal dolore che li aveva quasi portata alla pazzia.

All'uscita da quel cancello maledetto non riuscì a crederci, pensava che fosse soltanto un sogno.

 

«In quel momento, mentre il tedesco si cambiava d'abito, appoggiò la sua pistola a terra, sapevo che in quel momento avrei potuto ucciderlo, ma la mia famiglia e il mio stile di vita non esistono perché io tolga la vita a qualcuno, qualsiasi cosa abbia fatto.»

Credo che aver risparmiato la vita a qualcuno che può aver ucciso la tua famiglia e qualche migliaio di ebrei, sia uno dei gesti più forti che un essere umano possa compiere, perché di solito una persona disperata, frustrata e maltrattata sarebbe più impulsiva nello sfruttare un'occasione del genere. Riuscire a trattenersi guardando un mostro andare via è un segno di forza.

 

Mi ha colpito l'episodio dei tre ragazzini a cui era stato detto che, se avessero chiesto loro se volevano vedere la loro mamma, avrebbero dovuto rispondere di no. Sapevano che non avrebbero mai visto le loro madri, ma uno dei bambini, Sergio, sperando di poter andare davvero a vedere la mamma, salì sul treno e l'immagina, raccontata da sua cugina, di lui che, appoggiato alla barra di ferro del treno, saluta per sempre le due bambine mi ha trasmesso un forte senso di tristezza.

 

Uno dei protagonisti, Nedo Fiano, ha raccontato di quando il militare americano è entrato nella loro baracca; lui si è gettato a terra e strisciando è andato ad abbracciargli le ginocchia. Si è avvicinato strisciando, come facevano i supplici, disperati, nell'antichità.

 

La scena finale è una frase: «Da Auschwitz ce ne siamo andati con le gambe, ma ci siamo rimasti col cuore».

 

 

 

Oggi «discriminazione» è essere irrispettosi nei confronti di qualcun altro, credersi migliori. Anche se non abbiamo in comune etnia, religione o altro, alla fine abbiamo tutti un elemento in comune: siamo persone. Eppure ce lo stiamo dimenticando un po' tutti. Il mondo è bello perché ci sono persone che non la pensano come noi.