29 ottobre 2002 - 18:28

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Mara Barcella ha vinto il premio giovani del concorso letterario “Straparola”, con il racconto “Les Amants”.

La premiazione si è svolta Sabato, presso il Centro Culturale San Bernardino, alla presenza delle autorità e di un folto pubblico di appassionati.

 

Il testo del racconto:

Les Amants

Passa un treno. Sembra attraversarmi la testa con tutto il suo carico. Dolore. Luci blu. Luci bianche. Luci rosse. Lei sta al mio fianco. È bella. Indossa un vestito di raso nero. Quando si muove si vedono i riflessi di tutto il suo corpo. Ogni centimetro. Le gambe, la pancia, i seni. Se la guardo troppo a lungo inizia a sembrarmi una fata, o qualcosa così. Perciò distolgo lo sguardo. Ma anche se non la osservo posso sentirla. E so che è bella. Chiudo gli occhi e la avverto. È in piedi. Con la bottiglia di birra in mano. Guarda in alto e in questo allunga il suo collo bianco. Non dice niente. Non si muove. Il vento la attraversa e ne esce diverso. Lei finge di non accorgersene.

Passa un treno. Sembra attraversarmi la testa con tutto il suo carico. Dolore. Luci blu. Luci bianche. Luci rosse. Vorrei che il mondo restasse sempre immobile in questo momento. Io. Lei. La città in lontananza. La macchina parcheggiata diffonde questa musica non propriamente melodica. Lei grida forte e ride. Dice di aver visto una stella cadente. Di aver visto una stella cadente. Dice che è stupendo perché una sola stella che cade può fare felice moltissime persone. Dice. Esprimi un desiderio. Chiudo gli occhi. Vorrei che il mondo restasse sempre immobile in questo momento. In questa notte senza luna. Con il vento. Con la mia fata. Che si avvicina. Mi abbraccia. A volte sembra che tutto giri così in fretta che sento il bisogno di sedermi e aspettare che passi.

 

Sussurra che questa è la sua canzone preferita. La tira scema. Dice. Percorriamo chilometri in cerca di una tavola calda aperta. Ha voglia di torta alle noci e non le passa proprio più. La sento cantare appoggiata al finestrino. Continua a guardarmi come se avesse qualcosa da dire, ma non parla. Canticchia e basta. Quella vecchia canzone in cui malgrado chiuda i suoi occhi vede la vita in rosa. La Vie En Rose. Mi piacerebbe davvero tanto vedere la vita in rosa. Mi piacerebbe davvero tanto poterle regalare la vita in rosa. Scorriamo veloci su questa strada che attraversa il deserto. Questa notte. Scorrono veloci le luci dei lampioni. Scorre veloce il deserto, il buio senza luna. Lei sorride appoggiata al finestrino. Il suo volto è bianco e stupendo. Io non penso più a nulla, seguo la canzone e stringo forte il volante. Schiaccio sull’acceleratore. Non vedo oltre i venti metri. Schiaccio sull’acceleratore e chiudo gli occhi e seguo solo la canzone e la sua voce che dice “questa strada sembra non finire più”. Questa strada sembra non finire più.

 

Ci sono momenti, nella mia vita, che ho quasi cancellato. Volti che non trovano collegamenti prossimi nella mia mente. Una volta, quando ero piccolo, mia madre mi ha detto che dovevo imparare a dare il giusto valore alle cose. Non ne sono mai stato capace. Mi accendo una sigaretta. Gliene offro una. L’accetta senza ringraziare. Non ho mai capito quale sia il giusto valore delle cose. Ho sempre visto sfilarmi tutto davanti, come i lampioni fuori dal finestrino. Mi bastava sbattere le ciglia perché il paesaggio cambiasse. Non riuscivo ad afferrare nulla. I momenti passavano, e io non potevo trattenerli. Ci provavo, mi sforzavo. Ma poi tutto era diverso. Non avevo niente a cui affezionarmi. Nessuna cosa a cui dare il giusto valore. Poi ho conosciuto lei. Il suo volto si staglia oltre i lampioni che scivolano veloci. Non avevo interesse a trattenere nulla. Poi ho conosciuto lei.

 

Parcheggio. Non ci sono molte macchine. Fa l’ultimo tiro dalla sigaretta, getta il mozzicone per terra. Parcheggio. Sbatte la portiera. Il suo corpo si muove lentamente, davanti a me. Mi fermo ad osservarla. Mio dio, mi fermo ad osservarla solo fino a quando si volta e mi chiede perché non mi muovo. Cosa sto aspettando. Vorrei rispondere che sto aspettando di vederla prendere il volo. Non dico niente. La seguo. Nel locale prendiamo posto ad un tavolo vicino all’entrata. La cameriera è vestita di rosso, porta le liste. Ha i capelli biondi spettinati. Ha una targhetta attaccata al petto. Luccica. C’è scritto Wanda. Wanda. Mastica una cicca e ci porta le liste. Lei neanche guarda. Ordina solo torta di noci. Poi sorride. Ha quegli occhi e quella pelle bianca tanto perfetta. Così lontana dal mondo che la circonda. Chiedo un caffè. Non ne ho nessuna voglia. Wanda scompare. Nell’attesa lei mi parla di come il mondo sia stupendo, alle tre di notte. Quando intorno c’è solo il nulla. E una cameriera di nome Wanda pronta ad accontentare ogni tuo desiderio portandoti una fetta di torta alle noci. Dice proprio così. Ogni tuo desiderio. Ogni. Suo. Desiderio. Lascia cadere quelle parole come se fossero leggerissime. E mi rattrista. Provo piacere in questo. Provo piacere nell’espressione inaspettata che assume il suo volto alla vista del tanto anelato dolce. Il rumore delle sue ciglia che si chiudono e si schiudono con dolcezza mentre porta la piccola forchetta alla bocca. Bocca rossa. Luci blu. Io bevo il mio caffè senza zucchero. E non so perché.

 

Penso che forse una ragazza della sua età non dovrebbe essere in giro, a quest’ora. Non dovrebbe essere in macchina con me. Con un ragazzo come me. Che ha conosciuto mille notti come questa, solo un po’ meno poetiche. Penso che una ragazza della sua età non dovrebbe neanche avere quegli occhi e quelle mani e quel modo di muovere le anche e sorridere quando meno te lo aspetti. Penso che un ragazzo della mia età, dopo una vita passata senza punti fermi, non dovrebbe avere voglia di stringere una ragazza della sua età. Sta fumando un’altra sigaretta. Il fumo le invade il volto. È silenziosa. Mi chiede di accostare. Io ubbidisco, senza pensarci troppo. Passa un treno. Sembra attraversarmi la testa con tutto il suo carico. Dolore. Luci blu. Luci bianche. Luci rosse. I suoi occhi si perdono dritti davanti a sé. In un punto indefinito sul cruscotto. Spegne la radio. In un attimo, il silenzio. Il silenzio si adagia sulla sua pelle, dona più enfasi ad ogni suo movimento. Vorrei dirle qualcosa. Qualcosa di significativo. Vorrei stringerla. Vorrei stringerla e rendere il suo corpo fragile tra le mie braccia. Sentirla mia, come se fosse una di quelle bamboline fragili di ceramica. Con quegli stessi occhi vuoti. Con quegli stessi occhi di vetro. E le labbra colore del sangue. E l’espressione un po’ persa di chi si sente sempre nel posto sbagliato. Vorrei dirle “sei bella”, semplicemente. E invece sto in silenzio. E aspetto. Sento il suo corpicino farsi vicino. Il suo vestito di raso stridere contro i miei jeans. Sento la sua mano sulla mia gamba. La sua piccola bocca proferire parole senza apparente significato. Sento il suo bacio. Caldo e umido. In questa notte senza luna. In questo deserto tagliato da una strada che non porta da nessuna parte. In questa notte che non trova spazio nel calendario. Sento il suo bacio. Piccolo, caldo e umido. A volte sembra che tutto giri così in fretta che sento il bisogno di sedermi e aspettare che passi. Rannicchiarmi e aspettare che passi dentro il suo bacio. In un posto dove nulla ha più importanza. Dove nulla ha più importanza. Nel rumore delle sue ciglia che si schiudono, proprio davanti alle mie, una sola domanda galleggia sospesa tra le mie labbra e le sue. “Ma come ti chiami..?” Sorride senza rispondere. Come se non fosse necessario. Luci bianche. Luci rosse. Luci blu.